Ecco il messaggio del Vescovo Alessandro per l’Avvento 2024:
“Fratelli e sorelle, il Signore « vicino, alle porte»! (Mc 13,29). Questo grido — che attraversa e scandisce il cammino dell’Avvento — ci restituisce la certezza che il Signore, non solo già venuto quando si fatto uomo e di nuovo verrà alla fine dei tempi, ma continua a venire in ogni istante, se gli apriamo le porte. E tuttavia — per il fatto stesso che torniamo a sentirlo e per l’insistenza con cui ce lo sentiamo ripetere — ci restituisce anche la consapevolezza che forse non lo abbiamo ancora lasciato entrare del tutto, perché troppe porte, che dovremmo spalancare, spesso preferiamo lasciarle chiuse. Quest’anno, per, non sarà come gli altri anni. Alla ine dell’Avvento, oltre al segno liturgico della nascita del Salvatore, troveremo il segno giubilare dell’apertura della Porta Santa. Ed importante che in d’ora, mentre si fa più fervente l’attesa, ci disponiamo a “incarnare” questo segno straordinario della fede nelle trame ordinarie della vita. Del resto, la celebrazione del Natale — a cui ci stiamo preparando — il memoriale dell’Incarnazione, ossia dell’atto reale e concreto con cui Dio ha deciso di incontrare la nostra umanità, assumendone la carne e riscattandone la storia, nella vicenda umana del suo Figlio fatto uomo. E permettergli di stravolgere la nostra vita, accogliendo senza riserve la sua continua venuta, il modo migliore per celebrare l’attesa. Preparandoci, dunque, al Natale e al Giubileo, vorrei che ci ponessimo seriamente queste domande: quali porte dobbiamo aprire? come possiamo aprirle? e cosa ci resta da fare, dopo averle aperte?
Non possiamo rispondere a queste domande senza chiamare in causa la speranza, perché dietro ogni porta che si apre c’è sempre un ignoto che ci inquieta e l’unico rimedio all’inquietudine sperare che aprire una porta sia meglio che lasciarla chiusa. Ma la speranza che viene da Dio non come quella che viene dall’uomo. Noi possiamo solo augurarci qualcosa che riteniamo migliore rispetto alle nostre aspettative; e sappiamo bene che tutte le aspettative umane, prima o poi, si rivelano illusorie, provocando delusione e amarezza. La speranza che viene da Dio, invece, non delude. «Spes non confundit» (Rm 5,5) ci dice la Scrittura e ci ripete il Santo Padre nella Bolla di indizione del Giubileo, che proprio da queste parole dell’apostolo Paolo prende lo spunto, oltre che il titolo. La speranza che viene da Dio non delude perché colloca le aspettative umane dentro un orizzonte infinitamente più ampio, che con il linguaggio della Bibbia e della fede chiamiamo “vita eterna”. Collocare le aspettative umane nell’orizzonte sconfinato della vita eterna non vuol dire convincerci che quando moriremo tutto si sistemerà e che fino ad allora dobbiamo subire una storia e un destino che, pur non piacendoci, non possiamo cambiare. La vita eterna non quella che comincerà dopo la nostra morte, ma — per dirla con le parole che aprono la Prima Lettera di Giovanni e che riecheggeranno nella liturgia del Natale — «quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita [… e che] annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi […], con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo […], perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,1-4). La vita eterna la certezza che «se camminiamo nella luce, come egli [Dio] nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato» (1Gv 1,7). La vita eterna la vita stessa di Dio, che si comunica a noi in forza del suo Spirito e in noi genera una comunione capace di legarci indissolubilmente gli uni agli altri; e quando, per via del peccato a cui siamo portati dalla nostra inclinazione naturale, la comunione con lui e con gli altri si spezza, la ricompone, mettendoci nelle condizioni di ricominciare. Il Giubileo, posto nel segno della speranza, l’opportunità ridata al Corpo di Cristo che la Chiesa di accogliere nuovamente la vita eterna e rimetterla in circolo fra le sue membra. l’occasione per rendere nuovamente umani e sempre più vivibili tutti quegli spazi dell’esistenza personale e comunitaria che abbiamo privato della speranza cristiana e riempito di illusioni che ci ostiniamo a chiamare, solo impropriamente, speranza. E allora necessario riconciliarci — prima che con Dio, con il nostro prossimo e con noi stessi — con il dramma della tribolazione e della sofferenza, che — tanto nell’esperienza dell’amore quanto in quella della fede — ci permette di esercitare la pazienza e di prepararci a una speranza capace di non cedere all’insoddisfazione e alla chiusura (cf. Rm 5,3-4; Spes non confundit, 4). Solo così la speranza «non delude», proprio perché «non confonde» (come suggerisce la traduzione letterale del «non confundit» di Rm 5,5), cioè perché ci fa vedere le cose come sono, smascherando l’equivoco che ce le fa sembrare come le vorremmo. necessario, inoltre, che — accogliendo l’invito di Spes non confundit nella premessa ai segni dei tempi che dobbiamo far diventare segni di speranza — riscopriamo il bene che c’è in noi e attorno a noi e resistiamo alla tentazione di sentirci sopraffatti dal male (cf. Spes non confundit, 7). Se non ci può essere Giubileo senza la grazia di Dio, infatti, non ci può essere Giubileo neppure se manca in noi la capacità di riconoscere il bene e il desiderio di ricercarlo, la perseveranza nel custodirlo dopo averlo trovato e la fatica di ripristinarlo dopo averlo perduto. Nella sua intuizione originaria — che ricaviamo dalle pagine dell’Antico Testamento e dalla storia di Israele — il Giubileo era di fatto un esercizio di restituzione e ricomposizione. La legge stabiliva che, trascorse sette settimane di anni, cioè un periodo che simbolicamente richiamasse la convergenza del tempo umano verso la sua pienezza nell’eternit, chi aveva dovuto vendere la terra potesse riprendersela e chi era diventato schiavo potesse tornare libero. Si trattava, dunque, di restituire la proprietà e la dignità che erano andate perdute, così da ricomporre l’ordine sociale che era stato alterato, secondo il principio che tutto proviene da Dio, a lui appartiene e a lui deve fare ritorno. Con questo significato, l’istituto del Giubileo entrato anche nella vita della Chiesa, sebbene con un ritardo di ben dodici secoli e alternando periodi di grande fioritura a momenti di massima decadenza. La dottrina sull’indulgenza non sempre stata recepita nel suo genuino significato e applicata nel suo autentico valore; e talvolta stata addirittura fraintesa da atteggiamenti superstiziosi e strumentalizzata da interessi economici. Non possiamo dimenticare le ferite e le lacerazioni provocate al Corpo di Cristo dalla leggerezza con cui le indulgenze sono diventate oggetto di commercio ai tempi di Lutero, quando si predicava che le anime dei defunti lasciassero il Purgatorio al suono delle monete che cadevano dentro le cassette delle offerte. Né possiamo tacere di fronte alla superficialità con cui in passato si pensato — e talvolta tuttora si continua a credere — che basti compiere le cosiddette “opere indulgenziate” per mettersi in pace la coscienza e tornare tranquillamente alla vita di prima, come se nulla fosse cambiato o dovesse cambiare. Eppure l’indulgenza una delle massime espressioni della misericordia di Dio, che la Chiesa — attraverso il “potere delle chiavi” affidato da Gesù a Pietro e ai suoi successori — elargisce attingendo a uno dei suoi tesori più preziosi: la carità che nell’unico corpo unisce tutte le membra, per cui «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1Cor 12,26). Cos, per un atto di estrema clemenza, le ricadute del male possono essere purificate dal bene di cui intriso il Corpo di Cristo e che dai membri nei quali maggiormente rifulge può arrivare a quelli nei quali maggiormente offuscato. E anche quando, per rendere tangibile questo bene che altrimenti resterebbe astratto, lo si commuta in qualcosa di materiale — purché resti sempre espressione della carità di Cristo, soprattutto in favore dei più bisognosi — l’indulgenza continua a esprimere in modo eminente l’amore che, nell’unico corpo, dal Capo passa alle membra e dagli uni si riversa sugli altri. Non ne possiamo pertanto capire il senso, se non la collochiamo sullo sfondo della comunione dei santi e dei suoi effetti concreti nella vita delle persone e delle comunità. Non ne possiamo riconoscere il potere, se perdiamo di vista che ogni peccato — anche quello apparentemente più insignificante — provoca conseguenze inimmaginabili e che l’assoluzione sacramentale può solo rimetterne la colpa ma non può eliminarne la pena, richiedendo un di più che non può venire soltanto da noi. Non ne possiamo ricevere l’efficacia, se alla celebrazione dei riti non facciamo seguire la conversione del cuore e il rinnovamento della vita, la riparazione del male e il ripristino del bene. Rimettendo il peccato quanto alla pena — dopo che il sacramento della riconciliazione lo abbia rimesso quanto alla colpa — l’indulgenza ci fa gustare immediatamente e immeritatamente la dolcezza della comunione ritrovata per grazia, che ci avrebbe richiesto molto più tempo e molto più lavoro, se fosse dipesa da noi. E averla gustata, dopo aver provato a lungo l’amarezza di averla persa, ci deve spingere a non volerla perdere più. A nulla serve allora il Giubileo, se non siamo disposti a lasciarci coinvolgere in un vero cammino che ci riporti a Dio e agli altri: soprattutto a quelli con cui pensiamo di non aver più nulla da dividere, per il male che ci hanno fatto o per quello che noi abbiamo fatto a loro; e a quelli a cui neppure pensiamo, perché l’indifferenza e l’egoismo ci hanno impedito finanche di accorgerci della loro esistenza. A nulla serve il Giubileo, se attraversiamo le porte sante delle Chiese, ma schiviamo quelle — non meno sante — della vita. L’Anno Santo dovrà quindi rimetterci in cammino. Il pellegrinaggio ci ricorderà l’urgenza — insieme alla bellezza e alla fatica — di questo dovere a cui non ci possiamo sottrarre. Ma, se i cammini giubilari seguono percorsi prestabiliti, quelli pastorali — e soprattutto quelli esistenziali — richiedono un discernimento da compiere personalmente e comunitariamente secondo le istanze della restituzione e della ricomposizione che il Giubileo, nella Sacra Scrittura come nella vita della Chiesa, comporta ed esige. Nel suo intervento alla nostra Assemblea Diocesana dello scorso 29 ottobre, mons. Staglianò ci ha proposto delle “restituzioni” improrogabili, che vi consegno in maniera sintetica per fissare alcuni punti fermi da cui ripartire:
1. restituire a noi stessi la percezione di essere abitati dallo Spirito Santo, che ci metta nelle condizioni di accogliere e vivere la vita nuova;
2. restituire a Dio il volto di Padre misericordioso, che soppianti quello più comunemente diffuso di giudice implacabile;
3. restituire al Vangelo il suo vero contenuto, che riesca a scuoterci e a metterci seriamente in discussione;
4. restituire a ogni persona la dignità umana, che spesso siamo portati a negare e offendere;
5. restituire alla comunità cristiana la concretezza di un cristianesimo vissuto, che la preservi dal rischio di un cattolicesimo convenzionale e formale. Invito tutte le comunità locali — e in particolare, al loro interno, i parroci e i consigli pastorali, quali organismi di partecipazione e di corresponsabilità, insieme alle aggregazioni laicali e alle varie espressioni della vita religiosa — a trovare spazi di confronto per chiederci come stiamo vivendo e annunciando tutto questo e come il Giubileo possa aiutarci a orientare in tale direzione il nostro cammino ecclesiale. Invito tutti a metterci seriamente in questione su come stiamo contribuendo — ciascuno nel proprio stato e nella propria condizione — a trasformare i “segni dei tempi” in “segni di speranza”, a partire da quelli più evidenti che Papa Francesco ci indica nella Spes non confundit (nn. 8-15) per finire a quelli più nascosti di cui il nostro territorio pieno, domandandoci se stiamo sostenendo ovvero ostacolando questa trasformazione. Nella misura in cui il Giubileo, sulla scorta di queste sollecitazioni, favorir la crescita del Regno di Dio in noi, potremo diventare uomini nuovi e donne nuove, capaci di rendere migliore la storia che condividiamo e fecondi i rapporti che ci legano. Potremo inoltre compiere con profitto l’«opera sistematica di ricucitura» e attuare la «nuova cooperazione generativa» che nella Lettera di indizione della Visita Pastorale ho auspicato come azioni prioritarie per la nostra Chiesa in questo tempo, in vista di un’ulteriore declinazione del progetto pastorale che dovrà orientarci negli anni a venire. Per tutti e per ciascuno, allora, sia « l’anno di grazia del Signore»! (Lc 4,19). La solenne celebrazione di apertura del Giubileo in Diocesi il prossimo 29 dicembre, in comunione con la Chiesa Madre di Roma — dove il Papa aprir la Porta Santa nella sua Cattedrale di San Giovanni in Laterano — e con tutte le altre Chiese del mondo, manifesti il legame che tutti ci unisce in Cristo, nella stessa vita di cui ci fa partecipi. La Beata Vergine Maria, che ha incarnato l’attesa dell’antico popolo dell’alleanza, di giubileo in giubileo, ino a quello definitivo del Messia, ci aiuti a restare vigilanti e operosi. Lei, nel cui grembo il Verbo si fatto carne senza scalfirne la purezza, ci aiuti a custodire il bene con tutte le nostre forze. Lei, nella cui Immacolata Concezione contempliamo la bellezza della nostra origine e del nostro destino, ci aiuti a lasciarci rigenerare per una vita che non avrà più fine. Di cuore, vi benedico e vi auguro ogni bene!”
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